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Brutti filosofi
di Stefano Scrima

Dicembre 2014

La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni.
Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.

A. Camus, L’uomo in rivolta.


Socrate, padre della filosofia occidentale, era clamorosamente brutto. Così brutto che accanto alla sua sapienza negativa gli storici tenevano con particolare enfasi a ricordare questa sua qualità di satiro paonazzo, quasi come se le due cose non potessero viaggiare separate. In effetti Alessandro Magno era astuto, non saggio, e bellissimo, o quantomeno affascinante, mentre il suo maestro Aristotele aveva gli occhi piccoli e troppo vicini. La bruttezza pare un viatico per la riflessione, non c’è dubbio, per quanto banale possa risultare questa verità. Mi viene in mente Leopardi. Ma è anche vero che se tutti gli uomini brutti fossero saggi per necessità, il mondo non sarebbe il porcile che è. Lasciamo dunque la parola ad un brutto illustre:
[Essere brutto] mi ha reso consapevole del fatto che il mio aspetto era un ostacolo da superare. E penso che mi aiutò almeno in un modo, poiché notavo che chi si riteneva bello si accontentava del mondo così com’era. I belli tutt’al più erano riformisti. Ciò mi ha richiesto un impegno maggiore soprattutto nei miei rapporti con le donne: imparare a parlare bene, diventare – per così dire – un buon intellettuale e affascinante. Il che ha prodotto conseguenze buone e cattive. [1]
Gira e rigira gli uomini vivono per piacere alle donne, un’altra verità incontestabile. Sartre lo sa, e ammette di aver sviluppato le sue qualità speculative e riflessive proprio grazie al suo strabismo. E cosa fondamentale: notava che «chi si riteneva — e qui la sfumatura necessiterebbe un approfondimento — bello si accontentava del mondo così com’era». Certo, che importa ai belli di cambiare le cose? Loro stanno bene così. Sono i brutti i frustrati che riflettono sul loro peccato originale — i brutti Paolo, Agostino e Tommaso ci hanno fatto vedere come — e che si inventano possibili mondi diversi.

Un altro pazzo, non proprio bello, lancia il sasso e nasconde la mano:
Analizzare la relazione che Sartre ha intrattenuto intellettualmente e filosoficamente con Camus e prendere in considerazione il fascino dell’uno e la bruttezza dell’altro (come lo stesso autore di Parole ha confessato), non spiegherebbe sicuramente tutto, ma non sarebbe privo d’un certo interesse. [2]
Onfray è convinto che Sartre fosse invidioso di Camus perché era bello (e quindi stupido?). È qualcosa di plausibile, perché no? La vita e i rapporti umani sono fatti, prima che di ragione, di chimica. Fatto sta che Camus, bello, filosofava. Che scandalo. E tra l’altro, proprio come dice Sartre — stando alle prime opere dell’algerino — il mondo a lui andava proprio bene così com’era: non bisogna sperare, anzi si deve accettare l’assurdo. Poi con gli anni, forse con la vecchiaia portatrice di decadenza e bruttezza, le cose cambieranno anche per lui.

Camus, bello, giovane, sulla spiaggia, attraverso il personaggio di Patrice del romanzo incompiuto La morte felice
accordava i battiti del suo sangue alla violenta pulsazione del sole delle due e, sprofondato tra gli odoro selvaggi e i concerti degli insetti sonnolenti, guardava il cielo passare dal bianco all’azzurro puro e poi subito svaporare fino al verde e riversare la sua dolcezza e la sua tenerezza sulle rovine ancora calde. […] Non riusciva a immaginare eternità né felicità sovrumana fuori dalla curva delle giornate. La felicità era umana e l’eternità quotidiana. Tutto stava nel sapersi umiliare, nel coordinare il proprio cuore al ritmo delle giornate invece di piegare il loro alla curva della nostra speranza. [3]
Sta così bene con se stesso che non ha senso, per lui, sperare in niente di meglio. E invece Sartre alla stessa età, già brutto, era anche già nauseato. Di se stesso.

Il caso ha anche voluto che al loro aspetto fosse assegnato un involucro adeguato: il grigio entroterra francese a Sartre e l’assolata Algeria a Camus, metafore del disagio e dell’appagamento. In realtà Onfray dice che se la presero tutti con Camus perché era un povero bambino algerino e non un borghese snob, uno che non poteva aver ricevuto la stessa educazione — come se aver letto i libri di Hegel cambiasse veramente qualcosa dall’averne letto i riassunti o dal non averli letti affatto. Ma molto più probabilmente, dico io (ma anche Onfray è d’accordo), perché era bello e malgrado ciò filosofava. E per giunta filosofava glorificando questa nostra vita misera trascorsa a trasportare massi su per le rupi più alte, per poi, totalmente impotenti, vederli ricadere nel nulla.

L’ho già detto, poi le cose per Camus sono cambiate.

E tuttavia il bel filosofo aveva mutuato questo suo sentire dalle riflessioni di un altro filosofo — brutto! —, un certo Nietzsche.

E adesso come la mettiamo?


[1] J. Gerassi, Talking with Sartre, Yale University 2009; trad. it. Parlando con Sartre, il Saggiatore, Milano 2011, cit., p. 76.
[2] M. Onfray, L'Ordre libertaire. La vie philosophique d'Albert Camus, Flammarion, Paris 2012; trad. it. L'ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus, Ponte alle Grazie, Milano 2013, p. 440.
[3] A. Camus, La mort heureuse (1936-1938, pubblicato postumo nel 1971), Gallimard, Paris 1971; trad. it. di G. Bogliolo, a cura di J. Sarocchi, La morte felice, 1ª ed., BUR, Milano 1975, cit., p. 110.


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